A me la parola – Centri commerciali. Il profumo dell’ottimismo o il puzzo di una nuova povertà? a cura di Vanessa Sacco

Ve le ricordate le domeniche di una volta? Quelle delle pastarelle e della siesta davanti alla TV nazionalpopolare? La RAI trasmetteva ancora le partite di calcio, ennesimo baluardo della nostra cultura ceduto ormai alla concorrenza più smart e benestante.

Per le famiglie tradizionalmente cattoliche la domenica era soprattutto il giorno del Signore. Si andava preferibilmente alla Messa di metà mattina, quindi la sveglia, per noi bambini, doveva essere messa per tempo. “Girato il Vangelo la Messa non vale più.”: diceva mia madre.

Al pomeriggio, qualche volta, si andava tutti al cinema, perché un’anteprima sul grande schermo aveva ancora un senso, e il prezzo da pagare per un evento così esclusivo si poteva ancora definire democratico.

Oggi, nelle grandi città, la domenica è diventata il giorno del centro commerciale. Se durante tutta la settimana ci si è piegati a malincuore alla fila per strada, al supermercato, alle Poste, la domenica si sceglie di buon grado di mettersi in fila per un posto ai parcheggi multipiano delle cittadelle del consumo.

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Quando cominciarono a sorgere in zone attigue ai centri abitati, alcuni gridarono allo scandalo. Erano i piccoli negozianti, che, davanti a tanta varietà di esposizione collocata tutta in un unico sito, sentirono, a ragion veduta, minata la propria sopravvivenza.

In effetti, ad analizzare il fenomeno a qualche decennio di distanza, si intuisce come la fortuna della maggior parte dei nostri centri commerciali non l’abbia fatta tanto l’esclusività dei marchi proposti, quanto la loro scaltra concentrazione, unita a tutta una serie di servizi correlati. Se le vie commerciali delle nostre città fossero in grado di fornire parcheggi gratuiti di facile accesso, gallerie al coperto in caso di pioggia, servizi igienici pubblici ogni trecento metri, ristoranti per tutte le tasche efficienti come una catena di montaggio, aree attrezzate per i più piccoli al chiuso e all’aperto, forse si avvertirebbe di meno quella frenesia che porta ogni domenica tante famiglie a migrare compatte verso le nuove cattedrali laiche della nostra società. Ma le città non sono più fatte a misura d’uomo, sono fatte a misura di massa; come una moderna arca di Noè, il centro commerciale apre la sua pancia alla variopinta specie umana promettendole non già un approdo sicuro da qualche parte del vasto agglomerato urbano, bensì facendosi esso stesso meta di felicità usa e getta.

Vi ricorda niente questa battuta? Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita, e là dentro c’è.

Ultimamente, poi, questi fari nella nebbia del trantran quotidiano sono diventati ancora più ammalianti: per assurgere a status di poli culturali e di intrattenimento oltre che di mero piacere consumistico, hanno preso ad ospitare anche concerti pop, mostre, presentazioni di libri, stand ginnici temporanei quando non addirittura dei cinema. Una famiglia tipo, dunque, potrebbe passare là dentro gran parte di una giornata accontentando tutti i suoi membri: gli adulti fanno shopping, i bimbi giocano, gli adolescenti si distraggono, si pranza, si cena, si guarda un film, ci si fa una piega e la manicure.

La crisi, ovviamente, ha gettato la sua mannaia un po’ dappertutto, ma non in modo completamente orizzontale: incamminandomi fra questi ordinati percorsi di lucido travertino, realizzo come i negozi di fai da te siano ancora quelli che vanno per la maggiore, seguono gli ingrossi di arredamento, i supermercati e i negozi di elettronica; gli esercizi che risentono di meno del calo dei consumi rimangono ancora quelli dedicati alla ristorazione: fast food, pizzerie al taglio e kebaberie in testa.

Ma anche l’arca ha le sue regole. Se si arriva senza un piano bene in mente, si rischia di vagare come un automa concludendo ben poco. Mettiamola così: come per le vacanze intelligenti e le partenze intelligenti, anche le puntatine ai centri commerciali dovrebbero essere fatte con oculatezza. Ad esempio, sarebbe utile tenere a mente che il più delle volte è la disposizione della merce ad attirare il cliente, non la merce in sé. Basta pensare ai mobili di Ikea: quando li vedi montati e piazzati impeccabilmente nei loro ambientini al centimetro terribilmente confortevoli e molto meno scandinavi di quanto si pensi, ti sembra di non poter più vivere senza; quando poi te li porti a casa nell’ingenua illusione di poter riprodurre quelle stesse sensazioni di intimo confort anche senza l’ausilio della stessa illuminazione, della stessa collocazione e dello stesso colore delle pareti, l’effetto si rivela un po’ tristanzuolo.

E ancora: la spesa della settimana in un banale supermercato può risultare, sul piano della varietà, poco gratificante, ma farla in un ipermercato, a meno che non si abbia un assoluto bisogno di alghe nori, può sfiancare più di un’ora passata ai gonfiabili coi propri pargoli.

Ma queste sono tutte buone intenzioni da lettera a Babbo Natale. È domenica da solo undici ore ed io sono già ai distributori self service dei cereali dell’ipermercato di un enorme centro commerciale quando noto un signore distinto infilare con nonchalance la mano sotto il dispenser della frutta secca per papparsi seduta stante una bella manciata di noci americane. La cosa non mi meraviglia, è diventata ormai una bonaria auto concessione. Come anche fagocitare due o tre pizzette confezionate e pesate dal banconista di turno e abbandonarne il sacchetto vuoto sul primo scaffale che capita è assai frequente. E che dire delle scatole di merendine con sorpresa lasciate aperte e defraudate del proprio gadget?

Qualche tempo fa mi è capitato di assistere a una scena che le ha superate tutte: un signore anziano aveva bucato col dito il cellophan di una vaschetta di polistirolo e aveva preso a spezzettare a mani nude un parmigiano dodici mesi. Qualche pezzettino se lo metteva in bocca, qualcun altro se lo infilava in tasca. Il tipo mi notò, ma invece di mascherare la sua azione, cominciò a giustificarla: – Lo so che non si fa, ma questa è la pensione che ci passa lo stato italiano. Se ne va tutto più a bollette che a pane. Dopo quarant’anni di lavoro mi sono ridotto così. E se mi beccano non è che mi dispiace, ché almeno in galera il mangiare è assicurato. Io sono vecchio, e va bene… Ma sa quanti giovani ci sono che non ce la fanno con quello guadagnano? Mio nipote, che è sposato e ha una bambina, fa la guardia in un albergo, lo pagano appena mille euro… Sa che fa? Si porta a casa quello che può dalle cucine. E non si meravigli, signorì, che sapesse quanta gente c’è che è costretta a fa’ così!

L’episodio mi fece pensare a quel film, Terminal, con Tom Hanks nella parte di un turista straniero che non poteva tornare nel proprio paese (di fantasia) perché nel frattempo c’era stato un colpo di stato, e non poteva neanche allontanarsi dall’aeroporto di New York, dov’era sbarcato, perché privo di garanzie utili ad ottenere un visto americano. La storia consisteva, quindi, nelle disavventure di questo poveretto che doveva arrangiarsi per dei mesi a vivere cibandosi degli avanzi dei clienti di passaggio, utilizzando le toilette pubbliche, dormendo su panche scomode e così via. Era comunque una commedia, col solito lieto fine e le inverosimiglianze proprie della fiction. Il vecchio del centro commerciale, invece, era reale, un pensionato indigente in carne e ossa, un debole dei giorni nostri.

È quindi questa la veste dei nuovi poveri? Non vagabondi puzzolenti ai margini delle strade, ma ex lavoratori costretti ad azioni senza più dignità? Padri di famiglia che scroccano la cena mettendo mano alla cambusa del proprio datore di lavoro?

I centri commerciali sono anche questo: vetrina sovrastimata della supremazia occidentale del consumo – non a caso vengono spesso scelti come obiettivo di attentati terroristici – e artificiale albero della cuccagna da cui servirsi col rischio di fare la fine del ladro di caramelle.

È davvero questo il profumo dell’ottimismo o abbiamo confuso l’ipnotismo spirituale dell’incenso con lo stordimento effimero che dà la formaldeide degli imballaggi?

E da qualche mese l’IVA è pure rincarata …

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Vanessa Sacco è nata a Catanzaro nel 1973 ma vive a Roma. È laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne; diplomata al Conservatorio Teatrale di Giovanbattista Diotajuti ha lavorato come attrice soprattutto nella Compagnia Teatrale del maestro Luciano Damiani e ha fondato la compagnia N.O.D.A. Nuova Officina degli Artisti, con cui ha svolto anche laboratori nelle scuole. Ha collaborato con il giornale online Catanzaroinforma, dove ha curato una rubrica di opinione dal titolo Mettiamolacosì. Oggi insegna e per hobby canta in un coro. Con Le Mezzelane pubblica “Amorevoli asimmetrie”.

One thought on “A me la parola – Centri commerciali. Il profumo dell’ottimismo o il puzzo di una nuova povertà? a cura di Vanessa Sacco

  • agosto 31, 2017 at 11:09 pm
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    Una versione dei centri commerciali viva, vera, che fa fa davvero riflettete. Complimentarmi all’autrice dell’articolo.

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